Di: Carmela D’Auria
Via Fontana a destra n.12, San Potito Ultra: ogni anno, ormai da quarantuno, torna in mente il fermo immagine lungo novanta secondi.
Sono nata in questo vicolo, più di mezzo secolo fa, dietro una di quelle finestre. Conservo questa foto, rubata dall’ archivio di Donato Di Stasi , per difendere quelle radici che sento cosi lontane, da non riconoscere più la terra che le accoglieva.
Si nasceva in casa: l’ospedale era ancora un lusso, e tutti in paese rincorrevano alla mammana: zì Savinella, al secolo. Questa è stata la mia casa fino a quel maledetto 23 novembre, custode dei sogni e delle aspettative di una quindicenne già ribelle e quella fu l’ultima sera che vi avrei trascorso: i vigili del fuoco dissero che sarebbe stato pericoloso entrare; quando poi fu possibile eravamo già lontani, su quel ramo del lago di Como, dove i miei fratelli più grandi, quasi prepotentemente, ci costringere a trasferirci, perché , secondo loro quella terra non aveva più futuro. Non avrei più rivisto Pippo, il mio adorato cocker e né Armando, il gattone nero che si sedeva accanto a me quando leggevo avidamente i libri che prendevo in prestito in biblioteca tutte le settimane, seduta sulle scale di pietra.
L’unico che disobbedì agli ordini fu mio padre, che scavalcò le transenne e velocemente , per non essere visto, salì la scalinata di legno coperta dalle macerie e dagli oggetti familiari che giacevano privi di intimità e si affacciò sul ballatoio, dove il capoccione del duce continuava ad ergersi sul piedistallo e la povera Santa Rita era finita in mille pezzi.
- Quillo, o Pataterno sa quello che deve fare – sussurrò.
Ma questa è un’altra storia.
Quella maledetta sera ero sul letto a leggere “Ragazza In”, un settimanale frivolo e un po’ audace per quei tempi: laddove non esistevano i social e gli influenzer, noi teen agers ci lasciavamo influenzare dalle cosce di fuori di Donatella Rettore, dai travestimenti di Renato Zero o da quel fustaccio di Miguel Bosè.
Per tutte le cose elencate, mia madre vietò a Dante il giornalaio di vendermi quella rivista.
Ora quella casa c’è più.
Anzi, per essere più precisi, non c’è più la mia, di casa: l’ ammistrazione che si definiva di sinistra negli anni della ricostruzione, ma che era solo sinistra, decise di vendere il suolo ad un costruttore, senza nemmeno interpellarmi.
Mia madre continuava a vivere nel prefabbricato, che non volle mai lasciare, perché ostinatamente, era convinta che se fosse andata via, non avrebbero più ricostruito la sua casa e vi morì, senza poter vedere quella che finalmente ero riuscita a ricostruire, dopo anni di contenzioso con il comune.
Quella casetta bianca, con le finestre di pino rosso, con l’ orto che curava amorevolmente, era stato il mio e il suo nido caldo negli anni più belli, quelli della meglio gioventù , anche se scanditi dal ritmo del cambiamento, dopo quella triste domenica di novembre.
Per ottenere giustizia per quella appropriazione indebita, mi rivolsi ad un legale: ero intenzionata a denunciare la giunta e il sindaco per quella che ritenevo un soppruso dettato dalla superficialità amministrativa .
Mi proposero un accordo: un suolo edificabile fuori sito per ricostruire la casa e la storia della mia famiglia.
Non avevo nessuna intenzione di accettare, ma le insistenze dell’ avvocato Desiderio furono talmente tante e tali da farmi cambiare idea.
Col senno di poi, mi resi conto di essermi venduta per un pezzo di terra.
Ora quella nuova casa è là, con le persiane chiuse e senza fiori alle finestre, monumento ai compromessi.
Quarantuno anni dal rombo del tuono.
Ho ricostruito i muri, ma non gli interni familiari, né tanto meno ho potuto rivedere nemmeno per un attimo desiderato gli amici sprofondati nella voragine: le ferite riappaiono ogni qualvolta la memoria commemora.
Allora, io, superstite, piango.
Per legittima difesa.
Chi è rimasto ha il dovere di essere felice, per non essere sopravvissuto invano….