Lex – Il nostro Ordinamento giuridico non contempla il diritto ad abortire, né tanto riconosce la Legge 22 maggio 1978 n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza“) che, anzi, all’art. 1 “riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio“.
L’aborto, oggi, si pone piuttosto come scelta dolorosa ed estrema, quindi possibile alle sole condizioni dettate dalla Legge, nell’interesse della gestante, qualora in pericolo il proprio stato di salute psico – fisico, ovvero la propria vita.
E’ vero, infatti, che a norma dell’art. 4 “Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura sociosanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.“.
Dunque, una scelta quella della donna legata al “serio pericolo per la sua salute fisica o psichica“, ovvero “al grave pericolo per la sua vita” (in tal senso, il successivo art. 6, a norma del quale “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.”.
D’altra parte, sebbene la normativa in esame non indichi limiti temporali entro cui tale scelta possa essere compiuta, è certo, almeno per orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cass. Civ., Sezione III, 04 gennaio 2010, n. 13), che l’opzione è preclusa alla donna allorché il feto raggiunge uno sviluppo tale da permettergli di avere una vita autonoma fuori dal grembo materno, salvo il caso di grave pericolo per la vita della gestante, in tal caso, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, la tutela della vita della madre prevale su quella del feto.
E’ di tutta evidenza, quindi, che, per quanto condizionata alla ricorrenza dei presupposti di legge, l’interruzione di gravidanza, pur non costituendo diritto per la gestante, è pur sempre rimessa alla sua libertà di autodeterminarsi (art. 13 Cost.), possibile se ricevuta adeguata informazione dal ginecologo, anche all’esito di corrette indagini diagnostiche.
Qualora il ginecologo ometta o non fornisca esatte informazioni in merito alle possibili malformazioni del nascituro, necessarie alla gestante al fine di esprimere, nel rispetto della L. 194/78, la scelta abortiva, scatta la responsabilità del professionista, se la paziente sia stata privata della facoltà.
E’ bene precisare che la responsabilità del ginecologo, quindi della struttura sanitaria, in tal caso si ricollega non alla malformazione del nascituro, non avendo ad essa contribuito, quanto all’omissione od errore diagnostico che, rendendo distorta la realtà, non ha favorito la scelta consapevole della gestante, costringendola così, nonostante il pregiudizio alla salute, a portare a termine la gravidanza, evidentemente problematica sotto svariati profili.
Ciò detto, va chiarito che, ai fini risarcitori, la donna dovrà comunque fornire la prova della sua volontà di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti, un onere probatorio particolarmente gravoso, vertendosi su di un’ipotesi e non su di un fatto storico, che potrà essere assolto anche in via presuntiva ex art. 2729 c.c. (ad esempio, “allegando il consulto medico per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, pregresse manifestazioni di pensiero sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva, etc.“), ma non esclusivamente con l’allegazione di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerunque accidit, nemmeno accertabili d’ufficio dal giudice.
Pari onere probatorio non graverà sul coniuge (o sui figli conviventi), certamente destinatario degli effetti del contratto tra paziente e professionista e/o struttura sanitaria (cd. contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi), non avendo voce in capitolo in ordine alla scelta abortiva della gestante.
Discorso a parte è la tutela del nascituro.
A tal proposito, prima d’ogni altro, va chiarito quanto segue.
Non osta al riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni il non essere il nascituro un soggetto di diritto. Se è vero, infatti, che, ai sensi dell’art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista con la nascita, non è necessario (si vedano a tal proposito: l’art. 1, primo comma, Legge 19 febbraio 2004 n. 40 – Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; l’art. 1 della Legge in commento; l’art. 1 della Legge 29 luglio 1975 n. 405 – Istituzione dei consultori familiari; l’art. 254 c.c. che prevede il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio anche quando questi sia solo concepito, ma non ancora nato) che la tutela sia da riconnettere alla sola soggettività – “che è una tecnica di imputazione di diritti ed obblighi” “potendosi pervenire alla tutela del nascituro, considerandolo oggetto di tutela” (C. Cost. 18 febbraio 1975 n. 27; Cass., Sez. III, maggio 2011 n. 9700; Cass. 9 maggio 2000, n. 5881).
Né si può escludere il diritto al risarcimento del minore per i danni subiti durante la gestazione sulla base della dilatazione temporale intercorrente tra causa ed evento lesivo, non ponendo alcun limite in tal senso la teoria della causalità.
Tanto precisato, il minore (e per esso i genitori), nell’ipotesi in cui la malformazione sia congenita, cioè non conseguenza dell’omissione od errore del sanitario, non potrà ottenere il risarcimento perché fondato esclusivamente sul preteso diritto a non nascere.
Difatti, non esiste nel nostro ordinamento un diritto a non nascere o a nascere solo se sano, di contro essendo fissata in esso la centralità del solo diritto alla vita (non espressamente menzionato nella Costituzione, tuttavia, implicitamente riconosciuto, perché alla base di tutti gli altri diritti espressamente menzionati e tutelati. In tal senso deve leggersi l’art. 27, deponendo lo stesso per l’inammissibilità della pena di morte).
A ciò deve doverosamente aggiungersi, e tanto è dirimente per le Sezioni Unite della Cassazione, che nel nostro ordinamento giuridico civile, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1223 c.c., è risarcibile il solo danno-conseguenza “riassumibile, con espressione empirica, nell’avere di meno, a seguito dell’illecito“. Sicché tutto può dirsi tranne che il minore con la nascita abbia avuto meno rispetto alla situazione in cui versava da nascituro, avendo egli acquistato il bene prezioso della vita, e “la non vita non può essere un bene della vita” (in tal senso si è espressa da ultimo Cass. 9251/2017).
D’altronde, riconoscere il diritto a non nascere, varrebbe ad aprire agli aborti eugenetici, oltre che ad assegnare al risarcimento del danno “un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale”.
La “penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, a cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa medica” sarà dunque compensata “mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale“.