Il Liking Gap, non potevo mancare all’appuntamento settimanale con la mini-rubrica “SorprendenteMente” che oggi sarà in virtù di un argomento che accompagna nel quotidiano la maggior parte delle persone: la paura di non fare buona impressione sugli altri, o di non piacere.
L’idea di trattare questo argomento mi è venuta notando la difficoltà di molti a partecipare ad una serata tra amici ove c’erano anche “persone nuove”. Il fulcro dell’attenzione, dunque, diventa l’altro ed il giudizio che si immagina questi possa esprimere finendo così per allontanarsi dalla coerenza del proprio essere per la aura di essere rifiutati o criticati. Nel tentativo di “proteggersi” e superare il giudizio altrui, si innescano strategie difensive atte anche a gestire lo stato ansioso che ne consegue, almeno al momento. Tra le reazioni immediate, non è insolito l’utilizzo di atteggiamenti quali distogliere lo sguardo, evitare di partecipare alle conversazioni, defilarsi ed abbandonare il contesto. Tuttavia, tali escamotage risultano poco fruibili in quanto non possono essere perpetrate nel tempo se non a discapito di una sana vita relazionale. La sensazione di non aver fatto una buona impressione e/o di non piacere agli altri è stata identificata con il nome di “liking gap” e la fautrice di tale nomenclatura è psicologa Erica Boothby ce, con i suoi collaboratori ha effettuato ben 5 studi sull’argomento. Uno degli esperimenti richiedeva che persone estranee intavolassero una conversazione per alcuni minuti dopo di che ognuna di loro avrebbe dovuto valutare sia quanto le fosse piaciuto il suo interlocutore, sia quanto credesse di essere piaciuta allo stesso. Orbene, il risultato dell’esperimento fu che, in generale, i punteggi delle valutazioni sull’interlocutore superavano in modo evidente quelle relative alla valutazione sull’impressione data all’altro ove la discrepanza maggiore si riscontrava nelle persone più timide ed insicure. Ci sono però da considerare un paio di fattori da cui non si può prescindere: innanzitutto, interloquire con uno sconosciuto rende la conversazione più aderente ad un piano formale e, di conseguenza, sia la percezione del suo linguaggio non verbale e paraverbale, che l’interpretazione degli stessi risultano più difficoltosi in quanto scevri da esperienze pregresse e partiti ex novo. A questo punto non si può non menzionare il pensiero angosciante che fa capolino quando si è convinti che l’interlocutore si stia focalizzando sui “difetti” o sui dettagli negativi o su una gaffe: si è portati a pensare che tali elementi siano gli unici ai quali si verrà associati e che diverranno il “bollo” identificativo. Quando si carica il peso della valenza data all’impressione che si immagina di aver dato agli altri, amplificando un’imperfezione o un errore al punto di crederli oggetto di derisione e/o rifiuto, si è sotto il cosiddetto “effetto spotlight”. Questo fenomeno si riscontra sovente negli adolescenti, ma non è poi così rara la sua presenza in età adulta ove a farla da padrone è la combinazione di una bassa autostima con un alto egocentrismo: infatti, se da un lato sembra che il soggetto rifugga le attenzioni, in realtà ne dimostra il bisogno ed il convincimento di averne. A tal proposito vi posso assicurare che mi sia capitato molto spesso ( e so per certo ce sia successo a molti altri miei colleghi) che, in un contesto a cui presenziassero persone nuove, quando “si svelava” la mia professione, ci fosse qualcuno che esordisse dicendo “Oddio allora devo stare attento a quello che dico e che faccio altrimenti chi sa che cosa penserai di me”. Molte persone, dunque, sovrastimano le proprie modalità relazionali, il proprio essere, e le proprie posizioni sociali proiettando le proprie percezioni sul pensiero altrui a cui ne attribuiscono la produzione. Tale effetto si verifica anche in chi è alla costante ricerca della perfezione e della migliore immagine di se: volersi migliorare non è un male, ma farlo sotto il condizionamento del giudizio altrui crea dipendenza da quest’ultimo e conduce ad un allontanamento dal proprio essere. Questa situazione, se estremizzata, può diventare patologica allorquando si è convinti di non essere all’altezza degli altri o delle dinamiche relazionali in cui ci si trova o dei contesti circostanti in cui ci si sente inadeguati e/o incapaci. Questa condizione è detta “atelofobia” e si manifesta anche con l’ipercriticismo di ciò che si è e di ciò che si vorrebbe fare ove la qualità di ambizione viene smorzata sul nascere. Dunque si vive nella costante insoddisfazione che si ripercuote, comportando enorme insicurezza, sia verso l’immagine di sé (esterna ed interna), sia sulle attività quotidiane che vengono, di conseguenza, boicottate. Ma di questo disturbo specifico ne parleremo in un altro articolo.